Sarà Kant a ribellarsi alla metafisica aristotelica, rifiutandosi – nella Critica della ragion pura – di considerare anima, mondo e Dio come "oggetti" metafisici che possono essere conosciuti. Lutero e il razionalismo di marca cartesiana, pur così diversi fra loro, costituiscono un unico fronte contro un Aristotele difeso ormai solo più – peraltro trasfigurato dal pensiero medievale – dai Cattolici; tale situazione (culminante nelle lotte galileiane contro l’aristotelismo o, meglio, contro gli Aristotelici seicenteschi) si protrae fino ai tempi di Heidegger, il quale si sforza di leggere Kant e Aristotele unitamente.
Per Aristotele la scienza la si pensa, non la si fa: questo presupposto comincia a scricchiolare con Ruggero Bacone per poi crollare definitivamente ai tempi della Rivoluzione scientifica. In Occidente – è stato notato – penetra prima la figura del filosofo e solo secondariamente quella dello scienziato, tanto più che le stesse basi scientifiche trovano una loro prima fondazione in sede filosofica (così è per l’atomismo o per l’infinità dell’universo): questa priorità della filosofia si riverbera su Aristotele stesso, che in Occidente penetra primariamente come filosofo e solo successivamente (grazie alla mediazione araba) come scienziato.
L’arrovellante quesito che egli si pone è: ti to on; "che cosa è l’ente?", ma anche "perché l’ente?".
Tutte le cose sono, ma di alcune devo domandarmi che cosa sono, interrogandomi sul loro essere (sulla loro ousia); nella Repubblica Platone mette ben in luce come si tratti di un qualcosa che sta al di là dell’essere; ma l’ambiguità che caratterizza il pensiero platonico (e che invece manca in quello aristotelico) risiede nel fatto che egli, ogni qual volta si trovi in difficoltà, ricorra ai miti: così nel Fedro, anziché dirci che cosa sia l’anima, ci racconta il mito della biga alata, mito che, per quanto suggestivo, anziché risolvere il problema lo aggira abilmente.
Dal canto suo, Aristotele non è ambiguo e non si abbandona all’invenzione di miti (fatta eccezione per quei dialoghi giovanili in cui l’influenza platonica era ancora predominante), bensì preferisce affidare la propria esposizione filosofica alla trattazione compiuta e sistematica; non è un caso ch’egli consideri piuttosto negativamente la dialettica (tenuta in grande considerazione da Platone), alla quale rimprovera una congenita inconcludenza: se per Platone non è possibile definire incontrovertibilmente che cosa sia la giustizia e, in forza di ciò, l’unica via percorribile consiste nell’accordarsi reciprocamente sul che cosa essa sia (in ciò sta appunto l’esercizio della dialettica), per Aristotele un discorso di questo tipo può valere esclusivamente in sede etica, là dove nel definire il bene non si può far altro che accordarsi.
In tutti gli altri casi la dialettica è messa al bando, poiché poggiante sul falso presupposto che non si possano pienamente conoscere le cose.
Detto ciò non bisogna vedere il tentativo di Kant come negazione dei principi aristotelici, ma come tentativo (ben riuscito nella critica della ragion pura) di togliere una sorta di paternità alla teologia cattolica di interpretare Aristotele a suo uso e consumo.
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